Ecco a voi la seconda parte della collaborazione con 00v e Mycena di giardino punk. Sul sito, oltre ad altrettante discussioni “green”, troverete l’articolo scritto da me sui posti nel mondo più solarpunk. Oggi parleremo di temi simili, individuando 6 elementi insoliti e caratteristici degli ecosistemi solarpunk.
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Introduzione
Quando si parla di Solarpunk si può fare riferimento a due tipi di pensiero ecologista: quelli che Colin Ward, citando Peter Harper, definisce efficacemente Light green e Deep green.
Da un lato l’ecologismo delle persone “che hanno più soldi che tempo” (Light greens), e quindi perseguono lo sviluppo di tecnologie innovative e sostenibili come le auto elettriche e i pannelli solari. Dall’altro lato, le persone “che hanno più tempo che soldi” (Deep greens) e immaginano un impiego migliore e più sostenibile di vecchie tecnologie, come i treni, e diversi modelli di produzione, come l’agricoltura non industriale e le pratiche rigenerative.
Ci sono quindi testi come “Solarpunk: design ed estetica postindustriale” del futurista Eric Hunting, che applicano al Solarpunk una visione decisamente light green e partecipe di una certa idea di progresso tecnologico che culmina quasi necessariamente nell’automazione.
Di contro, una corrente che affonda più nella teoria critica e libertaria e nel pensiero sistemico, è quella che ha il potenziale di iniziare a costruire fin da subito delle esperienze solarpunk collettive e autonome, senza dover aspettare nuova tecnologia e il cosiddetto futuro postindustriale.
Noi siamo in larga parte allineatɜ a questa seconda concezione, perciò te la racconteremo attraverso sei elementi che popolano la vita quotidiana di umani e non umani nel mondo solarpunk.
1. Le rovine
Partiamo col chiederci dove può essere il Solarpunk.
La nostra risposta è dappertutto, speriamo. Ma in particolare qui, nelle nostre città inquinate e nei nostri territori consumati dal cemento.
Il Solarpunk infatti non è una tabula rasa, non mira a ricostruire tutto solo perché ha imparato a farlo con tecnologie sostenibili. È un movimento che ha una memoria e si interfaccia con i paesaggi che lo precedono. Dovresti quindi aspettarti di trovare, come in Pacific Edge di Kim Stanley Robinson, persone che rimuovono l’asfalto per far rinascere il suolo, ma anche nuovi ecosistemi cresciuti in quelle che prima erano palazzine industriali.
Ricreare spazi di coabitazione interspecie è un processo che non avrà mai fine, ma che ha come inizio le città e le campagne di oggi e le loro componenti umane e non umane.
2. Gli eventi climatici estremi
La rottura di equilibri di lunga durata ha già raggiunto livelli critici per alcuni sistemi del pianeta, come il ciclo dell’azoto, il ciclo del fosforo e la biodiversità (Röckstrom). Ma anche la crisi climatica che stiamo vivendo è un sintomo di profondi scompensi nei processi di autopoiesi di Gaia.
Qualunque cosa accada, gli eventi climatici estremi sono fenomeni che rimarranno. Inondazioni, siccità, ondate di calore, faranno parte del paesaggio delle nostre esistenze, e come comunità e come ecosistemi, dovremo relazionarci con essi attraverso le culture, le conoscenze, le tecnologie e le prassi. L’obiettivo non può essere tornare a una condizione ambientale precedente, ma convivere con quella emergente nel miglior modo possibile.
Alcune delle tecnologie che vogliono limitare e invertire gli effetti della crisi, come la geoingegneria climatica, tentano di imporre un controllo basato sui nostri attuali valori e modelli di pensiero. Così escludono agentività non umane e altre complessità, riproducono gli stessi tipi di sfruttamento, e ci fanno perdere lo spazio di azione più importante: la scelta di vivere e cambiare insieme a questi sistemi.
Costruire ogni volta argini più alti non ci farà sopravvivere per sempre alle inondazioni. Rafforzare culture e prassi di protezione civile ci permetterà invece di vivere, sviluppando allo stesso tempo la nostra capacità di ecosistemi di adattarci e raggiungere nuovi equilibri.
Col tempo potremmo imparare, per esempio, a ristrutturare le nostre case, con piani bassi meno vulnerabili all’allagamento e apparecchi elettrici ai piani alti, e molto altro che oggi neanche immaginiamo.
3. Le biblioteche
Il Solarpunk è, tra le altre cose, una società di tinkerer, hacker e altrɜ smanettonɜ. Al centro di queste pratiche c’è il passaggio dall’essere comsumatorɜ delle tecnologie all’essere utilizzatorɜ attivɜ, che comporta il riappropriarsi delle tecniche di produzione, modifica, miglioramento, sperimentazione ecc.
Questo cambiamento non si limita all’attitudine personale, ma coinvolge tutta la società e il suo rapporto con gli oggetti. Essi non sono più nel campo della proprietà, del brand, e delle scelte di consumo, ma diventano mezzi necessari per inter/agire e autodeterminarsi, e come tali sono a disposizione di una collettività.
Biblioteche di oggetti e utensili, gruppi per imparare e praticare il bricolage (digitale o meno), pratiche di condivisione e uso collettivo, artigianato della riparazione e dell’implementazione di oggetti tecnologici. Queste e altre soluzioni mirano a sottrarre le tecnologie al controllo delle multinazionali e al sistema di produzione capitalista per riportarle all’interno delle comunità, dando spazio a differenti capacità, attitudini e interessi (non tuttɜ sanno o vogliono costruire un tosaerba).
4. La rotazione delle colture
Se una prospettiva light green si impegna a risolvere il rapporto con agenti naturali ampi e astratti come il clima, il Sole, il vento, le piante ecc., la potenzialità deep green del Solarpunk è quella di riportare al centro delle nostre esistenze specifici rapporti diretti coi non umani.
Aprendo i nostri spazi ad altre forme di vita, impariamo a frequentare in modi personali e situati gli enti con cui abbiamo sempre vissuto. Riconoscere il verso di un animale, innaffiare le piante di cereali, giocare con un colombo a cui attacchiamo una centralina per l’analisi dell’aria: continue contaminazioni interspecie e interregno.
Per riappropriarci di queste pratiche possiamo rivolgerci a gesti che consideriamo “antichi” e “tradizionali”, protocolli di intesa e collaborazione (nelle parole di Donna Haraway di con-divenire simpoietico) come le pratiche contadine o precoloniali. Lungi dall’essere “più naturali”, esse suggeriscono modalità di rapporto diverse dallo sfruttamento estrattivista. Sono protocolli relazionali, adattivi e ci permettono di creare nuovi spazi di azione sistemica e un po’ punk.
E allora una centralina su un colombo potrebbe servire a darci informazioni su quando innaffiare i cereali, mentre ascoltiamo voci di animali che, attraversando i nostri campi al terzo anno del ciclo di rotazione, ci aiutano a concimarli.
5. Le riunioni di condominio
Tornando a Colin Ward, è inevitabile che quellɜ che hanno “più tempo che soldi” (deep greens) immaginino il Solarpunk come un mondo in cui molto tempo è passato insieme, rapportandoci lɜ unɜ con lɜ altrɜ: organizzandoci, collaborando, empatizzando e in generale in rapporti diretti non mediati da scambi economici. Ma ovviamente una vita più comunitaria porta più occasioni di conflitto.
Parte di questi conflitti vorremmo lasciarli indietro. Ci aspettiamo che società nate dal basso non portino avanti una narrazione identitaria egemonica, valori unici ed escludenti e sistemi di disuguaglianze e gerarchie come il razzismo, la meritocrazia, il decoro… Non ci aspettiamo però che questo metta fine a tutti i conflitti. Potremmo litigare con i vicini di casa rumorosi, irritarci sui treni affollati, avere conversazioni frustranti, incomprensioni, interessi divergenti, fare errori e incontrare ostacoli nei nostri rapporti reciproci. Tutto questo non può e forse non dovrebbe essere eliminato.
Quello che potrebbe cambiare è invece la postura all’interno del conflitto, con la consapevolezza che sono le relazioni con lɜ altrɜ a crearci come persone e a modificarci continuamente. Da questa base vorremmo dialogare e scontrarci con fiducia e apertura verso le idee, i sentimenti e anche gli errori nostri e altrui. Vorremmo imparare pratiche di ascolto attivo, mediazione, scambio, in un setting come quello nato in alcuni ambienti transfemministi, che Rachele Borghi racconta nei termini di sbaglieranza/benvedenza.
6. La spiritualità
Gli elementi del Solarpunk che abbiamo raccontato finora hanno in comune un’idea relazionale dell’essere, che abbiamo calato di volta in volta nell’ambiente e nel paesaggio, nella vita materiale e sociale – ma è un’idea che permea fin nella sfera emotiva. Questo è il campo che riconduciamo alla spiritualità: non le istituzioni religiose e le loro strutture di potere, ma il rapporto di ogni persona con il mondo.
La spiritualità non è solo legata a pratiche simboliche, ma è anche un’esperienza concreta del quotidiano. Occupandoci di cosa mangiamo, interagendo responsabilmente nei nostri ecosistemi, partecipando attivamente alle nostre comunità, diventiamo consapevoli di essere dipendenti dalle relazioni col mondo e perciò anche vulnerabili alla sua imprevedibilità. Per poter vivere a così stretto contatto con altri enti, come ci propone il Solarpunk, occorre quindi ricalibrare il rapporto tra l’Io e il Mondo, che nelle società occidentali moderne è decisamente spostato verso l’individuo.
La matrice individualista–razionalista della nostra società è una spiritualità opaca, implicita. Il gesto di rendere esplicita un’esistenza spirituale sembra in contraddizione con i nostri valori attuali, come il pensiero scientifico. In realtà, è un gesto politicamente pregnante, che si rende necessario se vogliamo intraprendere cambiamenti radicali. Per imboccare una strada solarpunk, non basta passare attraverso la critica di epistemologie esistenti e la ricerca di concetti alternativi; occorre una visione olistica che comprende messe in discussione così ampie e profonde da obbligarci a prendere atto del loro portato spirituale.
Amitav Ghosh, ne “La maledizione della noce moscata”, ci invita a riappropriarci di politiche vitaliste che abbiamo dimenticato da secoli o che non ci sono mai appartenute, che restituiscano agentività al non umano e al non vivente.
«[L]’idea stessa di vitalità non umana potrebbe essere considerata pericolosa da chi ritiene che solo gli umani siano dotati di anima, mente, linguaggio e intenzionalità. E se si considera questo assioma come un tratto determinante della razionalità stessa, ne consegue che pensarla altrimenti sia irrazionale, superstizioso o “mistico”.»
Nonostante ne sentiamo la necessità, per noi ritrovare una visione olistica del mondo è molto difficile. Ci mette di fronte a sistemi di simboli e significati con cui non abbiamo familiarità, che ci possono spaesare e mettere in imbarazzo. Dall’altra parte, cercare tracce viventi di questo pensiero ci avvicina a culture che non siamo capaci di comprendere fino in fondo e a cui non sappiamo rendere giustizia. Sebbene non possiamo partecipare a un sistema di pensiero che non è nostro, possiamo però tentare di crearne uno che permetta una sintesi di diversi elementi: alcuni recuperati dal nostro passato premoderno, alcuni da culture altre dalla nostra, insieme a esperienze e idee del tutto nuove elaborate lungo il percorso attivo del contemporaneo.
È un progetto che si serve di visioni e scorci su un mondo possibile. Che ci richiede di provare a elaborarle, a condividerle e scambiarle con altre persone; di usarle per ispirare i nostri sentieri politici e di percorrerli collettivamente. Ci richiede perciò di pensarci comunità, di coltivare una partecipazione empatica «che permette agli umani di comprendere gli uni le storie degli altri» (Ghosh), e di riconoscere la centralità della narrazione nelle nostre politiche. Questa per noi è l’essenza del Solarpunk.
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